Politica

La crisi della democrazia rappresentativa

Appennino romagnolo - Casetto
Appennino romagnolo – Casetto

La questione è posta da tempo. La crisi della democrazia rappresentativa è conclamata; non solo in Italia. Ne scrivono i politologi, i sociologi, gli intellettuali più avvertiti.
Vi concorre il palese deficit di qualità di gran parte del personale politico su piazza; ma tale motivazione, per quanto fondata, non è esaustiva. E’, anzi, reversibile: se il sonno della ragione genera mostri, il mal funzionamento del meccanismo della rappresentanza toglie autorevolezza e credibilità alle istituzioni e a chi le interpreta. E lascia il campo ad avventurieri ed opportunisti. Ben che vada ai mediocri. Per cui il circuito perverso si auto-alimenta.

Dunque, di quale alimento va nutrita una democrazia rappresentativa che voglia essere vitale ed efficiente? A costo di esporsi a molte e diffuse diffidenze, la prima risposta non può che essere: vanno resi più forti, credibili e quindi autorevoli i partiti. Autorevoli in quanto portatori di una visione della società, di gerarchie di valori attorno a cui organizzarla, di interessi materiali e spirituali da difendere e da affermare. Su questo i partiti devono fondare la propria attrattività, non su messaggi semplificati ed effimeri, destinati a produrre ulteriore delusione e sfiducia, poiché di per sé illusori.

Soprattutto la sinistra politica deve affondare le proprie radici nella società reale, nelle sue contraddizioni, interpretare i suoi problemi e prospettare le soluzioni possibili. Interpretare non è sinonimo di rappresentare; l’interpretazione richiede comprensione, lettura critica, capacità di discernimento. Richiede assunzione di responsabilità per discriminare a quale dei tanti problemi irrisolti sia necessario dedicare prioritariamente attenzione ed impegno se l’obiettivo è una società più giusta e coesa.

In questo i partiti non possono bastare a se stessi; tanto meno oggi, a fronte della estrema complessità che caratterizza il corpo sociale è fondamentale la funzione della cosiddetta rappresentanza sociale. Sindacati, associazioni imprenditoriali, professionali -i corpi intermedi, per appropriarci di una efficace definizione sociologica- non possono che essere considerati dai partiti politici come interlocutori indispensabili, attori co-essenziali di una democrazia efficiente ed autorevole.

Paradossalmente il fatto che anche questi soggetti vivano oggi una evidente crisi di efficacia nell’assolvere al proprio ruolo, testimonia ulteriormente la reciprocità delle funzioni di rappresentanza sociale e rappresentanza politica. Non si rafforza l’una a scapito dell’altra,
Per tutte queste ragioni, forse scontate ma per nulla banali, risultano insensati i reiterati segni di insofferenza verso le principali organizzazioni della rappresentanza sociale -verso la CGIL in particolare- che provengono dalla nuova leadership del PD.

“Ridimensionare”, “sottoporre a dimagrimento” sono verbi che descrivono il trattamento da somministrare alla CGIL, individuata -se ben comprendiamo- come l’espressione più significativa e simbolica delle modalità di auto rappresentazione della condizione delle persone nel sistema economico. Supponiamo infatti che l’auspicio (di Renzi e di taluni suoi supporter) sia parimenti rivolto anche a Confindustria e a tutte le altre rappresentanze sociali tradizionalmente consolidate. Un simile approccio rivela una concezione troppo semplificata e superficiale della democrazia rappresentativa. La rappresentanza politica, propria dei partiti, non è una modalità sovra-ordinata della democrazia; piuttosto deve saper condurre a sintesi la molteplicità di espressioni che un corpo sociale variegato manifesta. E quella del rapporto di ciascuno con la condizione economica e lavorativa continua ad essere quella che, più di altre, sostanzia la vita delle persone.

Naturalmente è lecito -a volte perfino salutare- confrontare soluzioni di merito diverse, o anche fra loro alternative, sulle singole problematiche: sul sistema previdenziale piuttosto che sul diritto del lavoro o sulle politiche industriali; ma i dictat sono il modo peggiore per conquistarsi autorevolezza e consenso. Non a caso ci hanno provato in molti, con poco successo.
Si riparta piuttosto dalla Costituzione che, lo ricordiamo prima di tutto a noi stessi, conferisce ai diritti sociali dignità pari ai diritti politici e civili nell’edificazione del nostro edificio democratico.

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