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Il costo della vita

Foto: viaemilianet.it
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E’ appena uscito in libreria il libro di Angelo Ferracuti dedicato alla ricostruzione della drammatica vicenda avvenuta nel porto di Ravenna il 13 marzo 1987 (“Il costo della vita”, editrice Einaudi). Tredici operai morirono nell’incendio che si sviluppò a bordo della nave gasiera “Elisabetta Montanari”, mentre erano impegnati a pulirne la stiva. I “picchettini”. Morti come topi in cunicoli in cui ci si muove strisciando, in spazi 80 per 40, sui residui di olio e su lamiere arrugginite. Forse la più crudele strage che abbia colpito il lavoro operaio nel corso degli ultimi decenni nel nostro paese.
Duecento pagine intensissime, che ricostruiscono fino al dettaglio non soltanto i fatti di quel giorno maledetto, ma il contesto sociale e ambientale, le storie personali delle vittime, le loro vicissitudini alla ricerca di un impiego in un segmento del mercato del lavoro particolarmente esposto a soprusi e illegalità.
Il libro non nasce in occasione di una particolare ricorrenza; leggendolo se ne ricava l’impressione che l’autore avvertisse da tempo l’urgenza di riportare a galla nella sua e nella nostra memoria, per intero e in tutti le sue implicazioni, quella vicenda, a ventisei anni di distanza. Ne scaturisce un vero e proprio “corpo a corpo con la memoria dispersa” dei fatti, come lo stesso autore definisce il suo lavoro. Ferracuti ci accompagna nei luoghi, li descrive con la precisione del reporter, ci aiuta a conoscerli, ci mette a contatto quasi fisico con tutti i protagonisti: le vittime, i loro amici, i loro famigliari, i soccorritori, i cronisti del tempo, i testimoni diretti e indiretti, anche con i “carnefici”. Ma la cosa straordinaria è che non si tratta di un viaggio a ritroso nel tempo. Il viaggio avviene ora. Il dramma è sullo sfondo, nitido, con il suo carico di dolore, di rabbia, di sdegno, di inquietudine e con il volto riconoscibile delle vittime. Ma gli incontri, i dialoghi, i commenti, gli interrogativi irrisolti, sono di oggi, a ventisei anni dai fatti. E’ di oggi l’incontro, fra gli altri, dell’autore con la mamma di una delle vittime che continua ad indossare, sotto il maglioncino, il pigiama del figlio per sentirlo vicino. E’ di oggi il viaggio, un po’ alla cieca, al Cairo per conoscere ed intervistare la sorella di uno dei ragazzi morti, Mosad. Ed è assolutamente attuale la descrizione dell’ambiente umano e fisico che caratterizza un grande porto: la vastità degli spazi, la dimensione ciclopica delle macchine con cui si lavora a contatto fisico (l’immagine di copertina rende evidente la proporzione tra la dimensione di un uomo e quella dalla carena della nave maledetta). Un ambiente che avvolge e intimorisce.
Ricostruzione dettagliata e rigorosa, rielaborazione attraverso la memoria, denuncia civile di responsabilità soggettive e oggettive; ma in nessuna parte semplice invettiva. Questo è il libro di Ferracuti. Domina l’urgenza di comprendere come sia stato possibile e come quella vicenda abbia segnato la vita di tutti coloro che ne sono stati coinvolti. Un esempio lampante di come la memoria valga molto più della semplice, pur rigorosa, ricostruzione documentale.
Un viaggio, quello che Ferracuti ci racconta, che deve essergli costato molto dolore, ma d’altronde, secondo l’ammonimento di Kapuscinski, “il cinico non è adatto a questo mestiere”.

Giuseppe Casadio

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