Pensandoci meglio
“Io l’avevo detto”. E’ una affermazione che capita frequentemente di ascoltare – penso che ciascuno ne abbia esperienza – quando oggetto di conversazione sono i fatti della politica e la loro evoluzione. Affermazione ricorrente e, francamente, insopportabile. Raramente succede, infatti, che chi è propenso a tale atto di presunzione sappia anche dire, alla bisogna, “avrei potuto pensarci meglio”. Non è moralismo. I vizi di ciascuno sono sempre perdonabili, ma se diventano orientamento di molti è necessario discuterne, e confutarli.
Parliamo dunque di politica, tracciando un bilancio di questo intenso primo semestre del 2013. La campagna per le elezioni politiche di febbraio fu caratterizzata dal clima di vittoria annunciata della sinistra. Nei fatti quel clima alimentò superficialità nella conduzione della campagna e ne ipotecò l’esito. Sindrome da vittoria annunciata, sottovalutazione della sofferenza sociale indotta dalle politiche ostentatamente liberiste del governo Monti, praterie lasciate alle scorribande corsare del “grillismo”.
Risultato: indubbiamente la sinistra perse una opportunità enorme, innanzitutto per errori propri. In questo senso patì una sconfitta che come tale va riconosciuta. Ma la destra uscì dalle elezioni di febbraio tramortita, subendo un crollo che forse nessun partito mai, nella storia della Repubblica, ha dovuto registrare nel breve intervallo che intercorre fra due scadenze elettorali. Crescita dell’astensionismo e affermazione del M5S furono la risultante di tutto ciò.
Prese le mosse da qui la partita a scacchi su rinnovo delle cariche istituzionali ed esplorazione delle maggioranze di governo possibili; con un ruolo inevitabilmente centrale della sinistra in quanto gruppo di maggioranza assoluta alla Camera (comunque sia, questo stabilisce il meccanismo elettorale vigente).
Fin qui è storia, ma quanto è avvenuto da lì in poi, soprattutto in termini di dibattito interno al PD, merita di essere rivisitato alla luce dell’esito della importante tornata elettorale per le amministrative. E forse c’è, appunto, qualche giudizio da ripensare per molti.
Dopo la vicenda delle presidenze di Camera e Senato, e tenuto conto della composizione del Parlamento, l’impegno del PD di Bersani a condividere con la destra la scelta del nuovo Presidente della Repubblica era l’unico modo per tenere vivo, su altro piano, il tentativo di far nascere un governo senza concordarne la maggioranza con la destra. Forse il tentativo sarebbe comunque fallito, la porta era stretta, ma al dunque ciascuna delle parti politiche rappresentate in Parlamento e i singoli parlamentari degli altri gruppi nell’esercizio della propria funzione non avrebbero potuto eludere una esplicita assunzione di responsabilità. Quanto sta avvenendo nella galassia grillina in queste settimane sta a dimostrare che valeva la pena di provarci.
Dunque sulla Presidenza della Repubblica si è giocato il punto decisivo. In estrema sintesi: negare di soppiatto il voto a Marini è stato il primo atto dell’operazione “larghe intese”. Con il successivo killeraggio di Prodi i guastatori hanno finito l’opera. L’ipotesi Rodotà non è mai veramente esistita. Chi, anche – o soprattutto – dall’interno del PD, insorse per bollare l’intesa sul nome di Marini come l’epifania della nascente maggioranza di unità nazionale, evidentemente non aveva capito. O meglio: alcuni non capirono mentre c’era chi lo aveva ben chiaro. E ci fu anche chi sentenziò “ecco la doppiezza del gruppo dirigente. Si dice una cosa e se ne fa un’altra. Io lo sospettavo e ora mi sento tradito!” Eppure la vicenda ricordava da vicino il 1998 e la fine del primo governo Prodi. Per chi ne fosse dimentico ricordo che tutti i commentatori (e taluni dei protagonisti) ricostruirono così la vicenda: l’apertura della crisi fu concordata fra D’Alema e Marini, con la sponda di Bertinotti che da alcune settimane aveva acceso i fuochi con la sconsiderata richiesta di una legge per le 35 ore. Forse, rispetto a quella vicenda, c’è solo da sostituire qualche nome con quello di qualche nuovo arrivato in carriera (e al posto di Bertinotti qualche neofita della democrazia diretta che risponde solo ai tweet provenienti dal suo collegio elettorale, incurante di ogni progetto condiviso).
Ma la ricostruzione sarebbe parziale se non si dicesse anche, più in esplicito, quale sia stato il ruolo di Napolitano. Della sua propensione – legittima, per carità – per una maggioranza di unità nazionale, già si è detto. Rimane da aggiungere che, nella condizione data, avrebbe potuto inviare alle Camere il presidente incaricato Bersani – che di certo godeva della maggioranza assoluta alla Camera – per verificare nei fatti la possibilità che il Governo la ottenesse anche al Senato sulla base delle enunciazioni programmatiche. La verifica preventiva, attraverso le consultazioni, della sussistenza di una maggioranza certificata non è affatto prevista dalla Costituzione, né imposta univocamente dalla prassi, come ha acutamente osservato Eugenio Scalfari nella recente video-intervista allo stesso Napolitano.
Dunque quale conclusione trarne? La più semplice e trasparente: ad una destra, ormai da alcuni anni totalmente allo sbando, è stato offerto ancora uno spazio di manovra enorme. Hanno concorso a ciò errori nostri e concomitanze effettivamente occasionali o comunque a noi esterne. Ciascuno rifletta sulla quota di responsabilità, grande o piccola, che gli appartiene, ma, per cortesia, finalmente, si riconosca fino in fondo che la prima grande evidenza del panorama politico italiano – oltre alla clamorosa disaffezione su cui sarà necessario riflette bene in apposita sede – è la crisi verticale della destra. Crisi di identità e di strategie. E ci si batta affinché ciò risulti sempre più evidente ai cittadini, ai commentatori, ai media. Anche la sacrosanta riflessione su noi stessi (congresso ecc.) ne risulterà più proficua. Si cominci, per l’intanto, a leggere bene anche il voto del 9 e 10 giugno. Aiuta.
Giuseppe Casadio Roma 11 giugno 2013