Mostar è una città della Bosnia-Erzegovina, simbolo delle atrocità compiute nel corso della guerra nella ex Yugoslavia. Rino Gennari, che l’ha recentemente visitata, ha approfondito la conoscenza della storia di quella città simbolo e ne ha descritto un interessante reportage, che pubblico con piacere, dividendolo in due parti. Questa è la seconda. Per leggere la prima cliccate Prima parte.
La ricostruzione civile
La ricostruzione delle condizioni di convivenza tra le diverse etnie, aventi culture, religioni, usi e costumi diversi tra loro, condizioni esistenti prima della guerra, anche se precarie, come poi si è visto, è molto più lenta di quella materiale, e il suo procedere è segnato anche da tendenze contrarie. La popolazione di Mostar è composta da bosniaci e croati, con una leggera prevalenza di questi ultimi. I primi, musulmani e i secondi, cattolici. La guerra, come sappiamo, è stata feroce, ma ha avuto anche un’altra caratteristica molto penosa. A Mostar, come in altre città, è stata combattuta tra mostarini bosniaci e croati nelle loro strade, piazze, parchi, cortili. Luoghi dove prima i giovani combattenti delle due parti avevano assieme giocato bambini e poi passeggiato nella maggiore età. Frequentando questi luoghi molti ex combattenti oggi ricordano il punto preciso dove un loro amico o familiare è morto al loro fianco. L’aspirazione alla convivenza è come trattenuta dalle ferite dell’anima.
Una parte della dirigenza politica (anche religiosa ?) non aiuta. Anzi, lavora contro la convivenza. C’è chi persegue una strategia di divisione, prevaricazione, emarginazione di una parte. Sembra essere ancora presente il piano per la cui realizzazione fu scatenata la guerra. Per fortuna la guerra oggi, per molte ragioni, non sembra più possibile. C’è una grande croce, alta circa trenta metri, eretta dai croati nel 1998, quindi tre anni dopo la fine della guerra, su una delle alture che quasi circondano Mostar. Io non sono credente. Non so con precisione, anche se lo immagino, quale significato i croati abbiano attribuito o ancora oggi attribuiscano a quella croce, ma io la vedo come un simbolo che incombe negativamente sulle prospettive di pacificazione degli animi, di coesione, di convivenza. Quella croce, non altre. A parte questo, tornando all’oggi, c’è qualcosa di più preoccupante.
Croati e serbi sembra lavorino per avere loro Stati indipendenti in Bosnia-Erzegovina. I serbi sono concentrati nel piccolo territorio di Banja Luka, mentre i croati sono insediati a macchia di leopardo in tutto il territorio, e il loro ipotetico obiettivo potrebbe realizzarsi solo prevaricando la popolazione bosniaco-musulmana. Solo due esempi. Il primo. Lo Stato croato ha concesso il diritto di voto per le proprie assemblee elettive ai cittadini della Bosnia-Erzegovina di etnia croata. Questi croati che voteranno, si sentiranno più cittadini della Bosnia-Erzegovina o della Croazia? Il secondo, più piccolo, ma significativo. A Mostar, da qualche anno le scuole sono state divise per etnia. Per cui, dalla scuola materna al liceo ci sono le scuole per i bosniaci e quelle per i croati. Sono evidenti le intenzioni e le possibili conseguenze negative. Riesce difficile capire le ragioni di questa strategia di divisione. Viene da pensare che i capi, facendo leva sul nazionalismo, vogliano mantenere e accrescere i loro privilegi, e creare così anche le migliori condizioni per lo sviluppo della corruzione, che comunque è già presente in misura significativa.
Ma la grande maggioranza della popolazione delle due etnie nettamente prevalenti, bosniaci e croati, non si propone la divisione. In cima ai pensieri della gente c’è il “pane”, cioè il lavoro, il potere d’acquisto, i servizi. Per questo, nonostante oggi ci sia molta più libertà e democrazia rispetto ai tempi di Tito, ma essendo di molto peggiorate le condizioni materiali di vita, la nostalgia, il rimpianto del regime titino è diffuso, cresce e si trasmette anche ai giovani che non l’hanno vissuto. Però non ho capito se c’è tra i politici chi si fa carico di queste preoccupazioni con un progetto realizzabile, se esiste una strategia a ciò finalizzata. Il futuro di tutti noi è molto incerto per quanto riguarda le sue caratteristiche. Il loro lo è molto di più.
La ragazza e l’Islam
Durante la permanenza a Mostar, tra le molte persone con cui ho parlato, c’è una ragazza la quale mi ha spiegato come ha maturato il suo passaggio dall’agnosticismo all’adesione all’Islam. Durante la guerra è stata rifugiata anche a Sarajevo assieme alla nonna. Questa era credente e praticante dell’Islam. Durante un Ramadan, invitò la nipote a seguirne le regole assieme a lei. Questa, anche perché comunque il cibo disponibile era molto scarso, aderì alla proposta. Proviamo. Si trovò bene. Si sentì meglio fisicamente e mentalmente. Dopo la guerra ha letto e accentuato il rispetto delle regole dell’Islam, è diventata credente, si è sentita sempre meglio e in misura crescente attratta dal cammino verso la bontà.
Io non gli ho detto che una persona può essere buona e praticare il bene anche muovendo da premesse non religiose, perché ho capito, aiutato da quanto scritto da Primo Levi in proposito, che in parte forse è stata spinta inconsciamente dal complesso del sopravvissuto, dello scampato al pericolo diversamente da molti altri. Per le donne il pericolo non era solo la morte. Nel caso della ragazza, credo che sia stato e sia anche un modo di sentirsi vicina a coloro che non c’erano più e che si erano battuti in difesa della loro terra, cultura, tradizione, religione.
Per finire
La camminata giornaliera, per evitare il caldo, la facevo tra le sei e le sette e mezzo, dalla mia residenza temporanea allo Stari Most. Era quello il momento in cui, prevalentemente, riflettevo sulle informazioni recepite, e la comprensione delle cose maturava, sia pure parzialmente. Il percorso era tutto nella città vecchia. Il tratto di strada più vicino al ponte è pavimentato con ciottoli rotondeggianti, probabilmente raccolti nella Neretva, disposti in parte in modo da ottenere forme geometriche, disegni, il cui significato, se c’era, non lo conoscevo. I locali pubblici, che occupano completamente i due lati della strada, si risvegliavano lentamente. Negozi di capi d’abbigliamento, tappeti, souvenir, molti dei quali costruiti con i bossoli dei proiettili sparati durante la guerra. I negozi sono alternati da bar e caffè, già a quell’ora quasi tutti presidiati da due-tre uomini, intenti a fumare, con una tazza di caffè turco o una birra sul tavolino. Alcuni uomini, se soli, sostano quasi sempre con lo sguardo perso nel vuoto. Durante il giorno, quella strada, come le altre analoghe, è piena di gente. Non pensate però a San Marino o, ancor peggio, Medugorje. A prescindere dalle colonne di turisti occidentali e asiatici guidate da una bandierina o da un ombrello alzato, è quasi oriente.
Il mattino della partenza da Mostar per il ritorno, alle cinque e quaranta sento per l’ultima volta il muezzin per la prima delle preghiere della giornata. Ho previsto una deviazione per Plitvice, dove mi sono fermato due giorni, per vedere i laghi e per passare dal luogo dove è iniziata la guerra. A Gornja Ploca sono uscito dall’autostrada e mi sono avviato per l’E71. Lungo i circa 60 chilometri fino a Plitvice, ogni 5-10 chilometri, ai lati della strada, in aperta campagna, c’è un cimitero di guerra con alcune decine di tombe. La peggiore delle azioni dell’uomo, in questo caso, è iniziata in uno dei luoghi più belli della natura. Siamo sommamente ingrati verso la madre che ci ha generato. (Rino Gennari – fine).