Chianale, i laghi Bleu e Steven
Ottobre 2010, Val Varaita. Giungiamo a Chianale di buon’ora. Siamo in fondo alla valle, dove inizia la salita del Colle dell’Agnello. Parcheggiamo il camper all’ingresso dell’antico borgo. Appena sceso ci viene incontro una persona all’apparenza molto anziana: barba lunga incolta, triste, un poco ricurvo e dal lento incedere. Lo saluto e gli pongo qualche banale domanda a cui risponde volentieri. Gli chiedo indicazioni per una camminata in quota. Ci propone di salire ai laghi Bleu. A domanda, dopo averci scrutato, dice che ci occorreranno due ore. Lui da giovane saliva in un’ora.
Imbocchiamo il sentiero verso le dieci, siamo a quota 1.800, la giornata è splendida. Dopo poco il sentiero si inerpica dentro un bellissimo bosco, prima di latifoglia, poi di larice. I colori delle foglie sono fiammeggianti, i prati punteggiati dalle mucche ancora al pascolo. Attorno le vette alpine con, alle spalle, il Monviso. Attorno ai 2.100 metri il larice lascia il posto a qualche vecchio cembro, poi solo roccia. La traccia del sentiero è sempre più labile. Oltre ai segni bianchi e rossi, ci aiutano, e ci incoraggiano, gli ometti di pietra. Si sale su roccette a tratti, sul versante nord, con un velo di ghiaccio. Il silenzio è assoluto, la fatica comincia a farsi sentire, ma subiamo il fascino della montagna e la sfida che ci propone: quella di arrivare ad una meta. Siamo ai 2.500 metri e ancora non riusciamo a immaginare dove questi laghetti dormano. Una grande cascata ci fa sperare, ma è un’illusione. Bisogna ancora salire. All’improvviso, attorno ai 2.600 metri, dopo due ora di continua salita, ci appare il primo laghetto. Ci pare bellissimo. Incastonato fra le rocce, sotto una parete alta, ecco il lago Bleu. Tracce di sentiero nella neve ci indicano il passaggio per gli altri due laghetti a 20 minuti di
cammino, che diamo per visti, proponendoci ti tornare lassù. In quei momenti il mio pensiero corre a don Pio, la persona a cui dobbiamo il gusto, la passione, l’amore per la montagna. E molto altro. La discesa ci consente di apprezzare ancora meglio la bellezza di quei luoghi. La gioia per quella piccola impresa, dato lo scarso allenamento, è tale che vorrei calpestare tutte le pietre.
Arriviamo al paese a cavallo delle due e mezza del pomeriggio. L’uomo incontrato al mattino è lì che ci aspetta. E’ contento, ci chiede com’è su. Lo invitiamo al vicino ristorante, ci segue. Dice che ha già mangiato, ma che ci fa volentieri compagnia. Si siede, faccio portare un bicchiere, accetta un goccio di vino, poi inizia a parlare. A bassa voce, con una vena di tristezza. In mezz’ora ci racconta la sua vita.
Per noi che lo ascoltiamo, il suo dire è un condensato di sensazioni e di emozioni. Steven (Stefano), ha un cognome francese, una delle cinque famiglie di origine francese rimaste il quel borgo. Lì è nato e lì vuole restare. Moglie e figli abitano più giù nella valle, ogni tanto vanno a trovarlo. Ogni tanto scende lui. Ma il suo cuore è lì, spera che anche il prossimo inverno resti su qualcuno, ristoratore compreso, per potere svernare nella sua casetta dopo il ponte di pietra. La sua vita in quei luoghi è stata molto dura. Ha lavorato all’Enel, poco a valle c’è una centrale idroelettrica, ma si è anche spaccato la schiena nel suo andirivieni a piedi in Francia. E’ parso di capire che portava avanti e indietro sulle spalle pesanti carichi lungo i sentieri di montagna. Ha fatto sci da fondo e con la sua squadra ha potuto visitare le Dolomiti. Da appassionato cacciatore, come tutti in montagna, possedeva dodici carabine. Era bravo a colpire. Ma una volta, non sa ancora capacitarsene, ha sbagliato un colpo. Allora ha inseguito sul monte quei tre caprioli. Quando li ha raggiunti, si è appostato, ha preso la mira ed ha sparato. Quando si è recato sul posto, non senza stupore, ha constato di averne uccisi due, con un sol colpo. Ci precisa che questo però è capitato una sola volta.
La vita in quei luoghi è stata molto dura. Oggi quasi tutti sono scappati a valle. Resta ancora qualche anziano in attesa dell’ affare della vita: vendere, a tremila euro al metro, la propria casetta di pietra ai ricchi francesi. Steven, di questo è rammaricato perché vede così morire il suo paese e la sua storia. Ci parla dei suoi due figli e della moglie che lavora giù al paese . Mi stupisco che la moglie lavori ancora. Gli chiedo del tempo della guerra, mi risponde che non sa, è nato nel quarantotto. Insomma, Steven ha 62 anni. Mi ero sbagliato. Chiedo al barista, annuisce, fa riferimento alla dura vita di montagna e al suo corollario di problemi. Poi Steven esce dal locale. Poco dopo usciamo anche noi per visitare il grazioso borgo. Vicino alla chiesetta, lo troviamo seduto in una panchina, assieme al suo amico Pino, a prendere gli ultimi raggi di sole di quella giornata. Presenta l’amico, indica alcune case da vedere e ci saluta, non prima di averci chiesto, quasi con speranza, se torneremo l’anno prossimo. In quel caso ci invita a casa sua, la seconda dopo il ponte di pietra. Auguriamo a Steven ogni bene e gli promettiamo di tornare in quei splendidi luoghi. Chissà.