Che fare del Cnel?

Il dibattito non è di quelli che suscitano grandi passioni, ma è indubbiamente aperto. E poichĂ© la domanda è in sĂ© radicale (si può abolire l’art. 99 della Costituzione?), vale la pena misurarsi con la questione partendo dai “fondamentali”. Senza tabĂą, ma con piena coscienza.
Scrisse M. S. Giannini nel 1950: “… nella nostra Repubblica… il solo lavoro dovrebbe essere il titolo di dignitĂ del cittadino. Si osservi che su questo contenuto optativo (della Costituzione, ndr) vi è concordanza degli enunciati verbali di tutte le ideologie, le piĂą svariate….” ; taluni altri giuristi insigni, a proposito della Costituzione del ’48, parlarono di “Costituzione lavoristica”, una peculiaritĂ in chiave comparativa.
Da dove traggono origine tali valutazioni? E – per stare al tema – si può ricondurre questa mole di valori e significati al solo art. 99? Certamente no; ma ancor piĂą sbagliato sarebbe intendere che l’art. 99 sia uscito per singolare stravaganza dalla mente di alcuni Costituenti particolarmente appassionati (Meuccio Ruini, Giuseppe Di Vittorio, Amintore Fanfani e pochi altri).
C’è, nella Costituzione del ’48, una filiera di enunciati che ben sostanzia i giudizi sopra richiamati: l’art. 1, innanzitutto, che non può essere inteso come pura declamazione retorica (come affermò il Presidente O. L. Scalfaro nel suo ultimo libro-intervista, non c’è nulla di retorico nella nostra Costituzione). Ma poi: il secondo comma dell’art. 3, l’art. 4, gli art. dal 35 al 40, l’art. 46 e, infine, l’art. 99.
Se tutti gli altri articoli citati sanciscono diritti e prerogative riconosciuti al lavoro – da intendersi ovviamente in tutte le sue manifestazioni: lavoro dipendente, autonomo, imprenditoriale, professionale, associato, manuale, intellettuale, creativo… – l’art. 99 fa, delle sue rappresentanze, una istituzione della democrazia.
Questa filiera di enunciati costituzionali configura una delle nervature del nostro modello democratico; e l’art. 99 ne è l’approdo, il punto di ingresso, anche simbolico, delle rappresentanze sociali nelle architetture dello stato.
Dunque il Cnel, finchĂ© esista, è, a pieno titolo, una istituzione rappresentativa. Non un comitato di saggi nĂ© un collegio peritale o altro del genere. E’ una istituzione che fa anche consulenza, ma in virtĂą della propria autonomia.
Istituzione “rappresentativa”. Di come interpretare nei fatti il requisito della rappresentativitĂ l’art. 99, necessariamente, enuncia solo i criteri fondamentali; la legge è chiamata ad interpretarli in chiave dinamica, cioè tenendo conto delle trasformazioni strutturali che cambiano nel tempo i soggetti collettivi del lavoro e delle relazioni economiche. Senza esclusivismi. Diciamola necessariamente in sintesi:
– le organizzazioni effettivamente rappresentative del lavoro (con le articolazioni sopra enunciate);
– quelle dell’impresa (individuate con altrettanta lungimiranza);
– altre forme di aggregazione sociale non tradizionale, in quanto assumano rilevanza economica (poichĂ© questo rimane comunque l’ambito di intervento del Consiglio);
– alcune competenze particolarmente qualificate capaci di arricchire di saperi pregiati il Consiglio, non a caso indicate dalle piĂą alte magistrature della Repubblica.
Da questo punto di vista si può di certo affermare che sarebbe auspicabile una più frequente e trasparente manutenzione dei criteri di attribuzione delle quote di rappresentanza ai diversi soggetti associativi; ma la individuazione dei singoli componenti non può che essere lasciata alla discrezione delle organizzazioni individuate come rappresentative. A ciascuna di loro compete di designare i propri rappresentanti nel Consiglio nella piena consapevolezza del significato di quella designazione e dei compiti a cui i rappresentanti dovranno assolvere. In consapevole autonomia, quindi. Ciò che rileva ai fini della corretta funzionalità del Consiglio è che i designati garantiscano una effettiva rappresentatività delle posizioni sostenute dalle organizzazioni che li designano.  Il Consiglio è, nella sua collegialità , istituzione; ciascun consigliere è tale in quanto portatore di una specifica rappresentanza.
In ragione di queste sommarie definizioni – per così dire, “ontologiche” – come possono/devono essere individuate le funzioni basiche, le attivitĂ fondamentali del Consiglio?
A me pare che l’intera attivitĂ di consulenza (al Parlamento e al Governo), la funzione di proposta (in forma di pareri o di progetti di legge), la funzione di monitoraggio e/o valutazione delle politiche pubbliche (di cui si avverte crescente l’esigenza), la piĂą tradizionale e preziosa attivitĂ di redazione di qualificati rapporti tematici, tutto questo richieda che il Consiglio sappia dotarsi di una propria aggiornata capacitĂ di “interpretazione” (auspicabilmente condivisa) dello stato e delle dinamiche evolutive che connotano sia i grandi comparti dell’economia (primario, secondario, terziario…) che i fattori fondamentali che influenzano il sistema economico-sociale (ad esempio l’immigrazione, le reti di socialitĂ , l’efficacia e l’efficienza del sistema dei servizi pubblici…). Naturalmente, non essendo il Consiglio un Centro Studi (anche i Costituenti lo escludevano in esplicito), questa preventiva capacitĂ di analisi può e deve essere sviluppata in sinergia con tutti gli altri segmenti del sistema istituzionale a ciò preposti (dalla Banca d’Italia all’Istat, al Cnr, ecc.). Ma non v’è dubbio che il Consiglio abbia necessitĂ di una autonoma capacitĂ di lettura delle dinamiche socio-economiche, filtrata dalla propria identitĂ di istituzione rappresentativa. Diversamente ogni altra sua attivitĂ finisce per essere funzione “tecnicistica” che altri possono fare piĂą e meglio.
Su un altro nodo concettuale che spesso compare – per lo piĂą confusamente – nel dibattito corrente vale la pena soffermarsi. E’ “concertazione”, questa? o pre-concertazione, o cos’altro? Dove sta Villa Lubin rispetto alla Sala Verde di Palazzo Chigi?
Come ha sinteticamente detto anche il collega prof. Treu nell’Assemblea del 30 gennaio (se ho bene inteso), la concertazione è una modalitĂ di governo, che vive o no in ragione di vari fattori contingenti: la temperie politica, la volontĂ dei soggetti di coinvolgere e farsi coinvolgere nelle scelte di governo dei processi. Non è una procedura; può dotarsi di procedure. Nella vita pubblica italiana reale degli ultimi decenni c’è stata una breve stagione in cui una esperienza autenticamente concertativa fu tentata: approssimativamente il tempo del primo Governo Prodi. Poi – mi si consenta la brutale semplificazione – venne il Governo D’Alema che decise unilateralmente di convocare in Sala Verde 50 organizzazioni (forse qualcuna in piĂą), molte delle quali rappresentative del proprio autoproclamato “presidente pro tempore” e qualche suo parente. E la concertazione finì. Poi, ancora, fu il tempo degli accordi separati, delle rivendicazioni ideologiche di volontĂ concertativa, e poco altro. Al di lĂ dei torti e delle ragioni. Il tutto in totale separatezza dal Cnel.
Volendo risalire piĂą indietro nella vita della Repubblica, possiamo leggere, rispetto alle tematiche di cui qui ci stiamo occupando, per grandi cicli e senza alcuna precisione storiografica, alcune grandi tendenze determinanti per la vita del Consiglio.
Una fase di orgogliosa rivendicazione anche nei confronti dei Governi, da parte dei vertici del Consiglio, delle proprie prerogative reali e potenziali; a ciò corrispose anche una produzione reale di proposte molto importanti da parte del Consiglio, e comunque una capacitĂ effettiva di intervento su grandi questioni (la riforma agraria, delle PP.SS….).
Poi, progressivamente, furono le parti sociali a sottrarre attenzione e quindi anche valore alle attivitĂ del Consiglio. Le grandi Confederazioni Sindacali volsero la propria forza crescente alla acquisizione di potere negoziale diretto nei confronti dei Governi e del Parlamento. In quella prospettiva il Consiglio poteva apparire, se non anche essere, un filtro inopportuno. Le associazione di impresa, per parte loro, sono “fisiologicamente” piĂą propense ad una relazione di tipo lobbistico con il potere politico, e vi si adeguarono.
Per gli uni e per gli altri, comunque, si depotenziò rapidamente lo spirito costituente.
Oggi la questione merita di essere riproposta, in chiave non retrospettiva, a tutti gli attori, politici e sociali.
Di fronte ai problemi di oggi, alle difficoltĂ a riposizionare la nostra economia sui mercati globali, a ripristinare coesione in un corpo sociale sempre piĂą frammentato, bastano relazioni di tipo solo negoziale o lobbistico tra i diversi corpi sociali, e fra ciascuno di essi e la politica? Il lavoro, pur nelle sue declinazioni contemporanee, non continua forse ad essere tratto costitutivo della dignitĂ delle persone, e perciò meritevole di riconoscimento e valorizzazione? (Ce lo rammenta, da ultimo, anche la piĂą autorevole cattedra morale dell’occidente: il Papa).
E, d’altra parte, il potere politico – oggi nel pieno della propria crisi di autorevolezza – può forse illudersi della propria autosufficienza?
La risposta a questi interrogativi è perfino banale. E dunque una istituzione come quella delineata dall’art. 99, liberata dalle scorie accumulate in cinque decenni, ricollocata nella contemporaneitĂ , può tornare utile a ciò? Questa è la domanda oggi; non “quanto costa in euro ciascuno dei pochi disegni di legge varati in cinque decenni”.
E ritornando alle questioni di impianto sopra enunciate, c’è un’altra domanda altrettanto imprescindibile: in che misura l’eventuale abrogazione dell’art. 99 mutilerebbe la coerenza complessiva del nostro modello democratico? Davvero si può procedere a riformare il sistema istituzionale solo in ragione degli equilibri di bilancio?
Tuttavia, per non apparire troppo difensivi nell’argomentare, ci si ponga pure la domanda anche in modo piĂą aperto: basta il Cnel che conosciamo a rispondere efficacemente alle esigenze che si stanno qui evidenziando? Qui la mia risposta è decisamente: no! No per la disinvolta noncuranza delle grandi organizzazioni della rappresentanza sociale. No per la propensione dello stesso potere politico a cercare, alla bisogna, interlocuzioni dirette con questo o quello degli attori sociali secondo logiche meramente lobbistiche e per lo piĂą sotterranee. No per la scarsa autorevolezza e capacitĂ di iniziativa con cui i vertici del Consiglio si rapportano al piĂą generale panorama delle nostre istituzioni (troppo spesso, al di lĂ delle buone intenzioni, sembrano vivere il proprio ruolo come una tranquilla sine-cura).
Allora, però, se così è, varrebbe la pena ricominciare da qui.
Ciascuno conosce la geografia dei poteri, e sa che l’abrogazione dell’art. 99 è ipotesi oggi effettivamente in campo, e potrebbe essere adottata senza suscitare grandi passioni. Ad un impegno però dovremmo sentirci tutti vincolati: fare il possibile affinchĂ© ogni eventuale decisione in tal senso non avvenisse nella sostanziale inconsapevolezza dei suoi significati, i piĂą immediati e i piĂą profondi.
Anche la Costituzione si può modificare, ma non surrettiziamente e per slittamenti progressivi.
Ndr – Articolo 99 della Costituzione. Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa. E’ organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge.