Viaggi

Sulle orme dei ciclopi

Et
Etna

Ivan Minguzzi inizia la descrizione del suo viaggio in Sicilia con una poesia. Un bel racconto, sulle orme dei ciclopi.

Ci sono posti dove le pietre hanno un anima, basta chiederlo ai poeti.

Muri

Muri di pietra, muri di sasso, muri di lava, muri di cemento, muri di muro.

Muri.

Muri alti, muri medi, muri bassi, muretti.

Le strade, le stradine, le vie, i vicoli,
i sentieri di questa terra sono arginati
da muri.

Qui tutto scorre fra due muri.

Ci si fa l’abitudine, ma non ce via di
fuga, qui si gira e ci si muove in una
gabbia, una lunga interminabile gabbia

Dai muri sporgono fichi, fichi d’india, limoni, ulivi, agave, palme, aranci, piante dai fiori rossi, e azzurri,
e rosa, e bianchi, e …

È la mafia?
La mafia non si vede, se no i muri che ci stanno a fare?

Chissà, forse ci sono pietre che possono servire anche per abbatterli, i muri.

(Ivan Minguzzi)

12 settembre 2007 (La terra dei ciclopi)
21,14 ora locale, il Charter della Tuifly atterra senza scosse sul suolo di Catania.
La terra dei ciclopi è avvolta dalla notte.

Le luci di Catania, come un immenso luna park, scorrono sulla nostra destra mentre, con la nostra Fiat Punto, percorriamo l’A18 verso nord, alla ricerca della nostra residenza di vacanza.

A sinistra, il grande vulcano, silenzioso e invisibile come il buio, incombe su di noi con il suo alito caldo e caliginoso.

Lasciata l’autostrada in località Giarre, ci si intrattiene a bordo sulla “retta via” da seguire. Il nostro albergo si trova in prossimità del mare, quindi non si può sbagliare: “Direzione est! Poi un lungomare si trova sempre!”.

La prima disputa è a mio favore. “Coraggio famiglia, sento l’odor del mare!”.

Infiliamo una dopo l’altra una serie di stradine sempre più strette e sempre più chiuse dentro muretti che non lasciano alcuna via di scampo laterale, ma che ci frega noi dobbiamo andare dritto, il mare ci aspetta.

Infatti, poco dopo, quando la strada si fa ancora più stretta e i muri più alti la nostra marcia finisce davanti ad un cancello chiuso, siamo in gabbia.

Dobbiamo rifare il percorso a ritroso, in retromarcia.

Come inizio sembra che non ci si debba annoiare.

13 settembre (L’ora del te)

Fondachello di Mascali ( lungo la “Costa delí Ciclopi”, 30 km nord di Catania).

Una fine sabbia nera ricopre un po’ ovunque strade e marciapiedi, è il respiro fuligginoso del dio vulcano, che mentre se ne sta nascosto dietro una personale cortina di nubi, vuole rendere chiaro, si fa per dire, che qui siamo nel suo incontrastato regno.

L’albergo, spazioso, con camere disposte su villette a schiera indipendenti fra loro, con terrazzini, cinti da siepi di rosmarino, che danno
su un giardino di palme al centro del quale sta un’ampia piscina.

Vi si accede da un vialetto di servizio guarnito da limoni, bergamotti e piante officinali.

Buon gusto.

King’s House” si chiama l’albergo, si potrebbe pensare ad una società inglese che ha investito qui, a dire il vero in un posto alquanto anonimo e fuori mano. Veniamo poi a sapere che i proprietari sono due fratelli catanesi. “Bacciamo le mmani”

Si inizia! l’orario della colazione è dalle 7 alle 9,30, ce la prendiamo calma, faremo una bella abbuffata per affrontare in forze la prima giornata di vacanza. Sono quasi le 9 quando facciamo il nostro ingresso nella sala ristorazione, l’agognato tavolo del buffet si presenta desolatamente vuoto, un paio di croissant, qualche fetta di pane, qualche mini confezione di marmellata poi vassoi, cabaret, tortiere totalmente sgombri da qualsiasi contenuto.

Intercetto un cameriere, un sessantino magro con aria seccata che si aggira intorno a sparecchiare tavoli, gli domando: “Avete yogurt?” . “ Certamente” mi risponde serafico. “Bene -dico io-ma dove sono?”. “Sono finiti, vede l’ora.” Ah vabbè.

Nicole prende dall’apposito recipiente l’acqua calda per il te, ma al momento di immergere la bustina si accorge che l’acqua è appena tiepida, richiamo il nostro addetto al confort delle colazioni: ”Guardi che l’acqua per il te è fredda”, gli accenno con fare gentile. “Per forza- risponde imperturbabile- è lì dalle sette” . Pensiamo che non siamo proprio al top del servizio, forse c’è spazio per migliorare.

Il mare è a 200 metri dall’albergo, spiaggia di ghiaia, acqua cristallina, fredda al punto giusto. Verso nord si estende un ampio golfo dove fa da cornice una corona di montagne che scendono dall’Etna e terminano a ridosso del mare con la rocca di Taormina. Verso sud il panorama si perde fra le baie e gli anfratti della costa dei ciclopi. Niente male.

Pomeriggio, dobbiamo iniziare a prendere confidenza con il territorio.

Prima tappa: Giardini Naxos, una piccola Rimini, con Taormina al posto di S.Marino e un golfo più bello della costa romagnola. Stradine strette, traffico da matti, scooter e motorini sono i padroni incontrastati.

D’un tratto un rallentamento, sembra un’interruzione stradale, marcia ai 10 orari, clacson a 110 decibel. Poi, dopo mezzora di caos, si svela il mistero: un omaccione sui 150 chili, a cavalcioni su un minuscolo motociclo, viaggia a velocità di lumaca nel bel mezzo della strada, assolutamente imperturbato dal tumulto che lo incalza.

Bisogna dire, a suo beneficio, che fa di tutto, con gesto garbato, per disinnescare la maleducata insofferenza che lo circonda: il braccio destro è sollevato, la mano è chiusa, il dito medio è puntato dritto verso il cielo.

Cena, la prima, tanto agognata.

Il buffet degli antipasti questa volta si presenta con le carte in regola, c’è il meglio della tradizione culinaria siciliana, dove le verdure e in particolare le melanzane la fanno da padrone. Troppo affollato però, è il guaio di tutti i buffet, bisogna sempre mettersi in fila.

Si passa al pasto che viene servito al tavolo. Primo: pennette alle sarde, piatto semplice ma da complimenti allo chef. Secondo: pesce spada alla griglia, tenero, gustoso, delicato.

Peccato per quel retrogusto al kerosene che dopo i primi bocconi ci costringe a lasciarlo nel piatto.

Taormina - Teatro greco
Taormina – Teatro greco

14 settembre (Il vino di qua)

Taormina.
Dopo l’attraversamento di Giardini Naxos, in un traffico inverosimile e la salita del serpentone con tornanti a gomito che si arrampica sulla rocca della cittadina, eccoci a Taormina, una sorta di acropoli vivente, alta, arroccata sopra al mare come una ghirlanda sulla testa di una dea.

Ecco Taormina, greca, araba, bizantina, spagnola, bellissima, infestata da turisti, che come pulci, pullulano fra le ciocche di pietra della sua storia.

Il teatro greco di Taormina è immenso, è uno spettacolo nello spettacolo, impareggiabile per la sua acustica, da 2500 anni tempio antico e moderno della rappresentazione scenica.
Quando si ha la ventura di far visita a questo enorme ventaglio di granito si è presi da una sorta di morbo della tarantola, non si riesce a star fermi, si salta di qua e di là, da una pietra all’altra, da una colonna all’altra, sopra un rialzo murario per una foto, a cavalcioni di una feritoia per un’altra, ci si siede su un gradino nel lato est, per poi riprovare l’effetto qualche gradinata più su nel lato ovest, si scende fino alla pedana di recitazione per poi risalire con il fiatone i grossi scaloni di pietra di nuovo fino in cima.
Dall’alto dell’anello semicircolare che fa da cintura esterna alle gradinate si ha l’omaggio di un panorama suggestivo, ad est il verde della costa con i suoi golfi e le sue insenature che si staglia con la distesa azzurra dello Ionio, il promontorio della Calabria incombe scuro e velato, a nord al di là dello stretto, l’Etna che imponente, col suo pennacchio, domina il paesaggio montuoso a ovest.
All’uscita dal teatro greco le gambe danno qualche segnale di cedimento, cosa di meglio che inoltrarsi nel cuore medioevale della città alla ricerca di un giusto ristoro a base di arancini, gelati e granite.
Una leggenda racconta che Taormina ebbe i natali da un Minotauro che è l’anagramma e l’emblema della città, un parente del feroce mostro mitologico che fu rinchiuso a Cnosso nel labirinto.

Resto un poco sorpreso quando, fotografando in ogni particolare la bella fontana barocca in Piazza del duomo, chiedo a Nicole: “Ma dov’è questo famoso Minotauro ?”. “Come dov’è ?- mi fa Nicole- Se lo hai appena fotografato”.

Il fatto è che al posto delle feroci fattezze taurine, il Minotauro locale ha il volto di un bimbo e il corpo di un capretto.

Forse meritava un appellativo un po’ più dolce.

Avvertiamo una strana presenza, c’è qualcosa che ci osserva dall’alto, è Castelmola, una cresta di ciclope, che svetta 400 metri sopra Taormina. Chi visita Taormina non può rinunciare ad arrampicarsi fino a Castelmola. Così, dopo un difficile travaglio per venirne fuori da un mega ingorgo che aveva paralizzato tutto il centro viabile di Taormina, sproniamo la nostra Punto, a marce basse, nella scalata al cielo di Castelmola.

Quassù, è proprio il caso di dire “dove osano le aquile”, fra le rovine spazzate dal vento del vecchio castello, ci imbattiamo in un signore con un gigantesco barbagianni tranquillamente appollaiato su una spalla. Impariamo cosi che nelle stanze ancora accessibili del castello è insediata una scuola internazionale di falconeria che ospita un po’ tutta la famiglia dei rapaci, aquile comprese.

Così, per gran parte dell`anno si può assistere quassù ad uno spettacolo unico: aquile, poiane, falchi pellegrini, barbagianni che sfidano nel vento gli dei del cielo per poi ritornare miti sul guantone del falconiere al primo richiamo.

Prima di scendere a terra, cerchiamo anche noi, in volo virtuale, di dominare con lo sguardo l’immenso orizzonte che si staglia davanti a noi sopra il mediterraneo orientale.

Cena, la seconda. Il mezzo di vino rosso è molto meglio della caraffa di bianco della sera prima, si adatta bene con “l’ala lunga alla catanese” (tonno in salsa piccante), corposo, armonico, giustamente alcolico, tutte le bacche di bosco.

Così si avvia la disquisizione sulla natura del vitigno: nero d’avola, cabernet-sauvignon, corvo rosso, cerasuolo, … Intravedo fra i tavoli il nostro cameriere, quello della colazione, gli faccio un cenno, lui accorre premuroso. “Buono questo rosso, ci saprebbe dire che vino è?” gli chiediamo.
“Certo!- risponde pronto- È un vino di qua!”.

15 settembre (Relax)

Il Dio Vulcano oggi si è svelato, finalmente lo si può ammirare privo dei veli nuvolosi dietro ai quali si nascondeva i giorni scorsi. Si è appena levato il sole e lui se ne sta già lì, trasgressivo, a fumare come un turco.

E’ una giornata di sole, calda e senza vento, l’occasione ideale per passarla al mare.

Pochi bagnanti sulla distesa ghiaiosa della spiaggia, il mare è calmo, l’acqua cristallina, nessuna traccia di inquinamento o di petrolio. Non si può chiedere di meglio.

Il problema è che qui proprio non si tocca, fatto mezzo metro l’acqua è subito profonda, non c’è tempo per compensare lo sbalzo termico, ma dopo i primi attimi di brivido e qualche urlo liberatorio ci si fa assuefazione e il bagno diventa piacevole. La prima mezzora la si passa a sguazzare con Cate munita di bracciali salvagente.

Bello, ma che fatica scendere e risalire dal mare con quella ghiaia fine che sprofonda sotto i piedi e ti riporta in acqua.

Il caffè che ci offriamo al bar del bagno è una crema sopraffina. Da dio! Forse l’abitudine all’espresso fatto in Germania fa il contrasto.

Il sole di metà settembre, anche se in Sicilia, è caldo ma non brucia, dopo il bagno e il caffè, è il terzo piacere che ci concediamo.

Stesi, sotto il sole, a prendere la tintarella settembrina è una vera meditazione, se non fosse per quel tappeto di sassi sotto il telo che dopo un po’ ti fa sentire l’emulo di un fachiro. Così girati un po’ da un lato, un po’ da un altro, un po’ di schiena, un po’ di pancia, ci viene da pensare che, probabilmente le comode sedie a sdraio della piscina sono più confortevoli.

Pane fresco, formaggio, uva, pesche, birra fredda al punto giusto: il nostro pranzo. Ce lo siamo procurati al negozietto di alimentari sul lungo mare.

È mentre, quando seduti attorno ad un tavolino nella nostra camera, i nostri palati stanno degustando quell’intrigante sapore dolce sapido che dà il formaggio quando si amalgama con la frutta, che arriva la prima onda d’urto. Ci guardiamo allarmati : “Terremoto? Siamo in zona altamente sismica”.
“La terra trema” recitava il titolo del celebre film di Visconti, ambientato proprio in questi luoghi.

I vetri hanno vibrato ma non abbiamo avvertito scosse sotto i piedi. Poi ora è tutto di nuovo calmo. Ci tranquillizziamo “ Forse un aereo che ha superato il muro del suono” .

Ma la serenità del nostro pranzetto dura poche decine di secondi, un nuovo rimbombo scuote le vetrate e ci lascia di nuovo col boccone a metà. Che si sia veramente risvegliato il dio vulcano?

Nuova pausa e nuovo boato, con una sorta di splaff finale ripetuto. Non sarà mica un maremoto?
In mattinata il mare era calmo, ma è ormai tristemente noto che le onde anomale arrivano all’improvviso, senza preavviso e il mare è a non più di 200 metri.
Ci affacciamo sul terrazzino che da sull’area interna deve c’è la piscina per vedere di capirci qualcosa. Sembra tutto calmo se non per quei clienti dell’albergo che si stanno allontanando in tutta fretta in ciabatte dalla piscina con gli asciugamani in mano e il volto cupo.

Poi, improvviso, un nuovo tonfo accompagnato da un flutto d’acqua che si alza sopra la siepe che circonda la piscina i cui sprazzi schiumosi arrivano fino a noi. Se di terremoto si tratta, l’epicentro deve trovarsi al centro della piscina.

La scena che si presenta, in una piscina deserta, è quella di un omaccione gigantesco, dal pancione enorme, che, ormai divenuto padrone incontrastato dello specchio d’acqua, sta obbligando gli oltre 100 chili della sua povera moglie a immortalarlo con la cinepresa mentre si tuffa, si fa per dire, nelle agitate acque della piscina. Un tuffo, un piccolo Tsunami, una problematica risalita, un controllo al filmato sul display della cinepresa, un litigio in cirillico con la moglie, una risistemazione della donna su un nuovo angolo di ripresa e spatasplafff !!! Nuovo tsunami.

Così che abbiamo rinunciato anche alla piscina.

Per fortuna fanno i gelati buoni da queste parti.

Le gole dell'Alcantara
Le gole dell’Alcantara

16 settembre (Gabbiani)

Il Dio vulcano, gia di mattina presto, ama mostrarsi con il suo trasgressivo e sfacciato incitamento al fumo.

Oggi facciamo visita ad una su antica creatura, situata proprio sulle sue pendici a 1.200 metri di altezza. Una colata lavica di migliaia di anni fa si sposò con le gelide acque del fiume Alcantara, ne nacque un tortuoso canyon con pareti composte da prismi di basalto lucidi e levigati come acciaio, attraversato da un torrente dalle acque impervie e freddissime: “le Gole di Alcantara”.

Una lunga scaletta rupestre, a piombo sulla parete, ci porta ad una piccola spiaggetta che si è fatta largo fra rocce stratificate di luce nera. Ci liberiamo i piedi dalle calzature, l’acqua è un cristallo di ghiaccio liquido.

Nicole e Cate osano addentrarsi in ibernazione verso l’antro che porta nel ventre del canyon, io desisto, forse i piedi possono servire per un’altra occasione, meglio stare all’asciutto a fare fotografie.

Risaliti in superficie, ci iscriviamo per una escursione sul piccolo altopiano che sovrasta il canyon, per poter ammirare dall’alto il tratto più suggestivo delle gole.

Ci inoltriamo così lungo un sentiero che si snoda fra coltivazioni di agrumi, macchie di fichi d’india e le creste del canyon.

È una vera e propria scarica di adrenalina osservare dall’alto, fra gli anfratti di lava, di questo stretto e intricato canalone le inimitabili e lucide sculture di basalto nero, sulle quali si alternano cascate spumeggianti, piccoli laghetti di acqua cristallina e minuscole, inavvicinabili spiaggette.

Cena.
È domenica sera, nelle sale interne si sta celebrando un matrimonio, così che la direzione ci offre di nuovo la cena sull’ampia terrazza panoramica. L’aria è mite, il cielo è terso, dal tavolo si può godere della magnifica cornice dell’Etna le cui pendici brillano delle mille luci dei paesini che la circondano.

Sono le 19,30, ora in cui si serve la cena, c’è un gran movimento, la sala è già straordinariamente affollata e il tavolo del buffet è già desolatamente vuoto. Del meglio della gastronomia siciliana, melanzane, peperoni, olive, zucchine, omelet, alici, non restano che poche tracce di condimento nei vassoi, ma anche dei dessert, che di solito aspettano in un angolo la fine della
cena, sono rimaste poche briciole nei cabaret che li ospitavano.

Intercettiamo il nostro cameriere, col quale c’è ormai familiarità, “Cos’è successo?” gli chiediamo. L’uomo allarga le braccia desolato, è una maschera di sudore e di sconcerto: “I gabbiani, i gabbiani!”, balbetta, “Mai visto una cosa simile, i gabbiani!” e si allontana sconvolto zigzagando fra i tavoli.
Per fortuna sull’asse del buffet c’è solo l’antipasto, la cena, ordinata “a la carte” fin dal mattino, è assicurata perché viene servita al tavolo. Intanto scrutiamo circospetti il cielo per assicurarci di non essere nel mirino di qualche vorace stormo di gabbiani pirata. Non vorremo passare alle cronache come il remake del famoso film di Hitchcock.

Il fatto è che sono arrivati all’albergo due pullman di turisti russi e polacchi, di quelli che fanno tour organizzati dell’isola e si fermano solo una notte o due in un posto per poi ripartire. Erano loro i gabbiani, noi ne avevamo avuto un anticipazione con le performance del russo in piscina del pomeriggio prima.

Già dalle sei e mezzo del pomeriggio facevano la fila, in attesa, davanti al ristorante. Appena è stata aperta loro la porta è stato l’assalto al buffet con relativo saccheggio, è stato un ghiotto bottino di piatti stracolmi che andavano dal pasticcio di melanzane alla cassata siciliana, dalle sarde a beccafico ai grappoli di sultanina. E cosa c’è da meravigliarsi, per loro questa è la scoperta del nuovo mondo, fatte le dovute proporzioni, qualche tempo fa, i conquistadores europei hanno fatto ben di peggio quando approdarono al nuovo mondo nelle terre degli indios.

Giunge il momento del dessert, per rimpiazzare il semifreddo depredato in prima serata dai gabbiani, il capo sala fa portare una bella torta mille foglie alla vaniglia, forse sottratta al banchetto nuziale che si sta svolgendo nelle sale interne.

È il nostro cameriere, ingagliardito per l’onore toccatogli, che si appresta a tagliarla a fette. Ma i gabbiani hanno sensi molto acuti e raffinati e non si lasciano cogliere di sorpresa, il nostro servente scompare sopraffatto da una folla famelica, armata di piatti e forchette, per riapparire dopo pochi secondi alquanto mal ridotto, tenendo mestamente in mano un coltello per torte e un vassoio desolatamente vuoto.

Gli ospiti fissi, ordinati e composti, restano a bocca aperta e vuota, naturalmente.

Il direttore di sala a questo punto ne fa una questione d’onore e di principio, “Non sia mai detto, che si lascino i propri clienti, almeno la parte più stanziale ed educata, senza dessert!”. Un briefing veloce con la sua equipe (il nostro e tre cameriere) per stabilire la strategia antigabbiani e si passa all’azione. Saranno serviti crem caramel, in piccole coppe, direttamente ai tavoli dei clienti che non hanno goduto del dolce. Probabilmente il festino di matrimonio che si consuma in interno costituisce una insperata risorsa dolciaria.

Ecco le tre cameriere che stanno arrivando reggendo cabaret pieni di crem caramel. Ma i gabbiani, si sa, hanno una sorta di quinto senso per il cibo, sentono i pesci nella rete ancor prima che questa venga tirata in barca. Appena le ragazze mettono piede sulla soglia della terrazza, lo stormo rapace le intercetta e in pochi secondi si ritrovano in mano vassoi leggeri e puliti come appena usciti dalla lavastoviglie.

Ma dov’è finito il nostro anfitrione?

Un urlo s’ode dal centro della sala, come un disperato SOS: “I gabbiani!!!”

Siracusa - Teatro romano
Siracusa – Teatro romano

17 Settembre (Grazie già visitato)

Siracusa , Polis greca, terra di Archimede.

Visita al parco archeologico.
I controlli dei biglietti ai cancelli sono scrupolosi, chissà perché, qui ci sono solo pietre e di che dimensioni poi!

Qui la prima cosa che colpisce è l’imponenza, l’enormità delle costruzioni.
Il teatro greco di Siracusa è immenso, fu uno dei più grandi dell’antica Grecia, poteva contenere anche 20.000 spettatori. Testimonianza di una civiltà superiore, che ne faceva un luogo di importanza fondamentale della vita pubblica. Sede di incontro dei cittadini e tempio della cultura ad uso universale.
Qui imperava l’arte raffinata della rappresentazione scenica a differenza degli spettacoli di pura ferocia che sarebbero seguiti nelle arene e negli anfiteatri dell’era romana.

Sopra le gradinate del teatro si trova una larga terrazza a semicerchio, incassata in una specie di porticato fatto di nicchie e piccole grotte ricavate nella roccia, in alcune delle quali sgorgano fontanelle con acqua freschissima. Era il luogo per il ristoro e per la toilette degli spettatori, già più di 2000 anni fa, durante le pause delle rappresentazioni.

Il numero di piedi che abbiamo visto sguazzare nelle fontanelle e l’odore di ammoniaca proveniente da alcuni incavi, testimonia con quale dedizione anche i visitatori odierni intendono mantenere viva la tradizione dell’uso originario di questo porticato di roccia.

Usciti dall’area del teatro, attraversando un giardino fra piante esotiche e macigni di roccia, ci troviamo di fronte ad una singolare e gigantesca grotta. Un foro nella roccia a forma di arco gotico molto allungato, alto più di 20 metri, che penetra con andamento circolare in profondità nella montagna. Sembra un ciclopico padiglione auricolare, infatti è chiamato “L’orecchio di Dionisio”, dal nome del tiranno di Siracusa che lo fece scavare, sembra per confinarvi i prigionieri e ascoltare da fuori l’eco delle loro voci, amplificate dalle proprietà acustiche della grotta.

I suoni al suo interno vengono amplificati fino a 16 volte. Caterina se ne accorge subito, infatti comincia a dilettarsi con una infinita raffica di strilli da costringere tutti i visitatori, genitori inclusi, a battere in precipitosa ritirata.

Di fronte alla zona archeologica greca, separata da un vialetto c’é l’anfiteatro romano, anch’esso immenso, ma a differenza del teatro greco qui si davano spettacoli con belve e gladiatori.

Probabilmente l’originaria rappresentazione teatrale che troverà una sua moderna evoluzione in quel vasto movimento artistico che si esprime oggi con tanto fervore negli stadi di calcio.

All’entrata del anfiteatro romano identifichiamo subito, seduto sulla soglia d’ingresso, l’omino addetto al controllo dei biglietti, del resto non si può sbagliare, calzoni blu e camicia azzurra: la divisa non mente.

Nicole gli si ferma davanti, pesca un po’ nella borsa alla ricerca dei biglietti, un po’ di nervosismo ma poi riesce a trovarli in mezzo ai mille accessori che popolano sempre le borsette delle donne.

Il vecchietto sembra distratto, ma Nicole richiama la sua attenzione porgendogli con fare deciso i ticket per l’ingresso.

L’uomo sembra perplesso, guarda i biglietti nella mano di Nicole, poi alza lo sguardo su di noi, poi guarda di nuovo i biglietti. Sembra un po’ incerto sul da farsi. Nicole insiste, scuotendo la mano in segno di sollecitazione a prendere in visione le carte. Finalmente l’omino si decide e prende nelle sue mani i biglietti per controllarli. Li guarda da un lato, li rigira, torna a rigirarli, li soppesa, poi guarda noi con fare interrogativo.

Nicole è un po’ spazientita, tra l’altro il prezzo d’entrata non è stato certo a buon mercato. “Guardi che sono validi, li abbiamo acquistati un paio di ore fa”,gli dice .
Il vecchietto ora assume un espressione più distesa e sfoggia un ampio sorriso di riconoscenza: “Siete tanto gentili, vi ringrazio moltissimo, ma ho gia visitato questo luogo, sono appena uscito, grazie, grazie di nuovo”.

Rientriamo nel traffico caotico per raggiungere, l’isola di Ortigia, “la città vecchia”, il cuore antico di Siracusa, ma la sua è una storia che parla da sé.

18 settembre (Malavoglia)

Aci Trezza, un piccolo golfo disseminato di guglie laviche che escono minacciose dal mare come immense zanne nere e cariate. I faraglioni, secondo il grande scrittore verista Giovanni Verga, i massi dei ciclopi secondo altri, o meglio i massi che il ciclope Polifemo accecato, lanciò verso la barca di Ulisse nel vano tentativo di fermare la sua odissea.

Aci Trezza. Questo è uno de luoghi che ha popolato il mio immaginario politico giovanile, la terra dei “Malavoglia”, il romanzo di Giovanni Verga che rappresenta la fatica degli umili, dei “vinti” e la loro ostinata resistenza all’oppressione e allo sfruttamento dei potenti. Tradotto in film da Luchino Visconti nel memorabile “La terra trema”. Indimenticabile l’immagine delle donne vestite di nero che, sferzate dal vento sui faraglioni, cercano di scorgere fra le onde in tempesta il ritorno della barca con la loro povera famiglia di pescatori.

Si vedono ancora oggi le donne sui faraglioni, ma di nero mantengono solo la chioma, gli abiti invece sono molto, ma molto più succinti.

Così che, con Cate, passiamo buona parte della mattinata ad arrampicarci e a nasconderci fra queste rocce di schiuma nera, aspre e dure come colate di ghisa e taglienti come rasoi. Le gambe ci tremano un poco, non sappiamo bene se per la paura di scivolare o per timore reverenziale alla storia mitologica e letteraria su cui camminiamo.

Mezzogiorno, tutto questo nostro peregrinare fra mito e verismo ci ha messo un certo languore nello stomaco. Proprio di fronte al porticciolo c’è un bel locale, con un’ampia terrazza protetta dal sole e l’invitante scritta “Non solo gelati”.

Prendiamo posto ad un tavolino con vista a mare, su comode sedie a poltroncina, così che possiamo, in pieno relax, contemplare il nostro mondo di giganti di pietra che spuntano dal mare.
Ma prima di dedicare il nostro sguardo al panorama marino, ci concediamo una sbirciatina alla vetrinetta con le specialità del locale, quelle in aggiunta ai gelati. Arancini al ragù belli rotondi e dorati, grossi come pompelmi; arancini al formaggio di forma più allungata, come grosse pere; pizzette di ogni tipo: alle melanzane alle zucchine, alle patate, alla cipolla, verdura e formaggio, miste e chi più ne ha più ne metta. Per non parlare del banco dei gelati e delle granite, che, com’è noto, in Sicilia sono una vera specialità.

Basta uno sguardo d’intesa fra me e Nicole: “Stiamo leggeri! Un gelatino, una granita e via”.

Così ordiniamo il gelato, naturalmente pistacchio, ma non si può escludere la crema di mandorle, certamente va assaggiata la cassata, e la spuma di ricotta dove la ritrovi, poi ci sono i gusti alla frutta locale: tarocco, limone, fico d’india,.. La granita come si sa è siciliana, hai voglia di macinare ghiaccio a Francoforte, o te la sciroppi qui o niente!

Dopo tutto questo freddo lo stomaco non sembra del tutto appagato, forse il gelato ha funzionato da aperitivo, cosicché, dopo un po’ di esitazione chiamiamo il cameriere, “Il conto?” ci domanda, “No, ci porti un arancino al ragù e una pizzetta al formaggio per la bambina” è la nostra risposta.

Un arancino tira l’altro e una pizzetta pure, così che, per stare leggeri, prima di sorbirci il caffè della casa, abbiamo abbondantemente onorato le cuoche del locale.

Mentre stiamo uscendo, un inserviente della cucina deposita nella vetrinetta delle cibarie, un vassoio di cannoli, proprio quelli siciliani, appena sfornati. L’acquolina ci scorre in bocca ma non abbiamo il coraggio di ritornare al tavolo.

Così, è con una certa malavoglia che lasciamo il luogo dei Malavoglia.

19 Settembre (Eolo e Vulcano)

Etna. Oggi si va a trovare il re dei ciclopi nel suo Olimpo.

A giudicare dalla strada, l’Etna deve costituire una grande risorsa economica per la Sicilia orientale. Superate le prime asperità che portano ai 600 metri di Zafferana Etnea, cittadina barocca che presiede i paesi della cintura orientale dell’Etna, inizia una specie di autostrada tenuta alla perfezione, che attraverso castagneti floridissimi e colate di lava nere come ghisa solidificata, porta ai quasi 2000 metri del rifugio Sapienza. Ultima costruzione in pietra a sfidare le fauci bollenti del vulcano.

Gia qui arrivano gli echi della lotta fra titani che si svolge 1000 metri più su, Eolo e Vulcano si danno battaglia.

Ci apprestiamo a salire ai 3300 metri della vetta, non c’è alternativa alla funivia, miracolosamente scampata all’ultima colata che invece ha sommerso tutta l’attrezzatura di risalita del lato nord.
l costo del biglietto è proibitivo, ma decidiamo di andare, stringeremo la cinghia. La funivia ci porterà fino ai 2400 metri dopo di che gipponi attrezzati ci condurranno, attraverso un paesaggio lunare, fino in cima, al cospetto del dio vulcano in persona.

Il barone di Münchhausens, nella sua visita all’Etna,
dopo aver fatto tre giri attorno al cratere vi saltò dentro e Vulcano, assieme alla moglie Venere, lo ricevettero con tutti gli onori brindando con nettare di prima scelta.

Purtroppo a noi non è data la stessa accoglienza. Chissà, forse Venere se la sta dormendo dentro al calduccio, mentre fuori Il dio del vento e il dio degli inferi se le stanno dando di santa ragione a spese dei poveri visitatori che si sono spennati per arrivare fin qui.
Attorno a noi solo lava a perdita d’occhio, montagne di lava, forate da immensi crateri a cono rovesciato dai quali esce un fumo grigio che un vento micidiale ci sbatte in volto assieme a detriti e polvere nera di vulcano. Qui è proprio il caso di dire che “c’è qualcuno che soffia sul fuoco”. Siamo letteralmente in balia di un vento freddo che soffia a più di 100 chilometri orari e spazza ogni angolo, ogni anfratto, ogni fucina fumante di questo luogo extraterrestre.
Caterina si ricorda della favola de “Il gallo m’ha bicà” e ha paura di essere trascinata in celo come il topino, quindi dobbiamo rassicurarla tenendola saldamente stretta fra di noi.

A dire il vero anch’io ho paura di fare la stessa fine di quel topo e mi tengo, a mia volta, ben saldo a Cate e Nicole.

Dopo aver vagato per più di mezz’ora in balia della furia degli dei, battiamo in ritirata.

Visto da quassù il panorama sottostante, il contrasto netto fra il pianeta color ruggine scuro sul quale poggiamo i piedi e i colori verde azzurro della campagna e del mare che stanno sotto, rendono l’immagine mitologica di un Olimpo dal quale Giove e il suo casato esercitano il loro incontrastato dominio sugli umani.

Per un attimo ci sentiamo Dei anche noi, poi prendiamo di fretta i mezzi del ritorno, perché, in fondo, il mondo degli umani e molto più accogliente.

Piazza Armerina - La villa romana
Piazza Armerina – La villa romana

20 Settembre (L’ombelico di Sicilia)

Piazza Armerina
Oggi si va verso l’interno, anzi nell’ombelico della Sicilia, a Piazza Armerina, il centro geografico dell’isola, a visitare la Villa Romana del Casale, residenza nobiliare romana del 300 dopo Cristo, per l’Unesco patrimonio dell’umanità per la bellezza dei suoi mosaici pavimentali.

Prendiamo l’autostrada per Palermo che da Catania punta a nord-ovest, verso l’interno, attraverso la fertile pianura che si estende a sud dell’Etna.

A differenza della Catania-Messina, congestionata dal traffico e a pagamento, su questa autostrada, nuovissima, tranne un paio di pazzi che si sfidano a oltre 200 all’ora, non c’è quasi traffico e non incontriamo alcun casello di pedaggio.

Attraversiamo la piana di Catania immersa nel verde degli agrumeti che contrasta con la cornice color paglia delle colline spoglie che le fanno da corona, mentre sulla destra scorre la sagoma imponente dell’Etna.

Oltre la piana ci addentriamo in un paesaggio collinare senza asperità, quasi privo di alberi, se non in prossimità di piccole casupole spoglie a forma di cubo.

Ci stiamo inoltrando verso il ventre della Sicilia, nella provincia di Enna, il granaio dell’isola, che che ai tempi dei romani era chiamata il granaio di Roma.
È un sistema collinare a scalare, che si alza gradatamente fino alla città capoluogo, Enna, che come una Dea, sovrasta i suoi sudditi, dai quasi 1000 metri del suo Olimpo.

Si ha la sensazione di essere immersi in un immenso acquerello agreste, dove primeggia il tono paglierino lasciato dal grano tagliato, striato, come da pennellate naif, dal carbone delle stoppie bruciate.
La poesia del quadro è un po’ guastata dalla notizia fresca, fresca, che da qualche parte, qui nei dintorni, hanno trovato i resti carbonizzati di due familiari del potente clan mafioso catanese dei Santapaola. Da primi accertamenti, sembra che la concomitanza con l’antico uso contadino della bruciatura delle stoppie, sia puramente casuale.

Nell’avvicinamento a Piazza Armerina si sale fino a 700 metri di quota, il panorama perde un po’ di dolcezza, il territorio si fa più aspro, alle colline a grano si alternano pendii boschivi, castagneti macchie di eucalipti e pinete. Benché la Sicilia sia una grande produttrice di vino, non c’è dato modo di scorgere qui traccia di vigneti.

Attraversiamo Piazza Armerina nel caos di mezzogiorno, fra i furgoncini degli ambulanti del mercato di piazza che sta smontando e schiere di ragazzi, appena usciti da scuola, che sostano raggruppati lungo i muretti a fare l’auto stop. L’obbligata concentrazione sul volante impedisce a chi guida, di distrarsi sulle fattezze di uno dei centri storici rinascimentali e barocchi considerati fra i più belli dell’isola.
La Villa romana, immensa, sita un paio di chilometri fuori Piazza Armerina, nascosta fra boschi e dirupi della campagna del Casale.
Sui pavimenti in restauro della villa c’è scritto un poema bellissimo, che, attraverso una raffinata arte mosaica, rivela a noi, fra divinità mitologiche e i riti della vita ( la caccia, la pesca, la vendemmia, il cibo, il gioco, l’amore, la bellezza), una espressività creativa ancora libera dal simbolismo religioso cristiano che da li a poco avrebbe ingabbiato ogni raffigurazione artistica successiva. Così ci viene rivelato che il bikini non è una invenzione di un costumista francese fatta metà del secolo scorso, ma avvenenti ragazze in due pezzi si esibivano senza timori riverenziali gia 2000 anni fa, con l’unica differenza che lo indossavano per attività ginniche, perché le bagnanti posavano al naturale, senza veli di genere. Come appariva naturale abbellire il cubicolo, la stanza da letto, con la scena di due amanti colti nel vincolo d’amore.
Molto educativa la testimonianza che si ricava dalla sala della frutta. Dodici medaglioni di alloro ricolmi di frutti saporiti, gloria della terra di Sicilia: uva, fichi, mele, castagne, cocomeri, olive. Ma anche melograne che arrivavano da Cartagine, agrumi provenienti dall’Asia minore (la produzione di agrumi sull’isola avverrà 400 anni più tardi con l’avvento della dominazione araba), pesche importate dalla Cina. A dimostrare che, gia ai tempi dell’impero funzionava un mercato globalizzato, almeno per i gusti esotici dei ricchi patrizi romani.

Epilogo
Non solo muri
L’aria è più calda e afosa della sera del nostro arrivo, sembra fine agosto, invece è il 21 settembre, la fine della vacanza.
Al nostro arrivo ci siamo persi fra muri di strade solitarie, ora siamo impicciati nel brulichio assordante del traffico del sabato sera.
Anche questa sera, sulla via per l’aeroporto, il vulcano si nasconde nell’oscurità, ma dalla parte opposta, rispetto al nostro primo incontro.
All’aeroporto sbagliamo il raccordo e finiamo al terminal arrivi anziché alle partenze.
C’è la sensazione di qualcosa di capovolto.
Al nostro arrivo abbiamo sentito l’angoscia dei muri, che qui chiudono ogni via in un immenso labirinto, poi il filo di Arianna ci ha condotti in spazi meno recintati e abbiamo visto altre pietre .
Pietre chiare, di granito, squadrate come parallelepipedi o affusolate come tronchi di sequoia, che formano grandi teatri all’aria aperta, da millenni templi dell’arte e della cultura antica e moderna.
Pietre di lava, più nere del carbone, come giganteschi ciclopi che sorgono dal mare, che raccontano storie mitologiche e ispirano la narrativa contemporanea.
Pietre marmoree, lavorate e cesellate con eccellente maestria, che prendono le sembianze della vita e le forme della fantasia.
Pietre di basalto, lucenti come acciaio, che si fanno varco nella montagna per lasciar scorrere fino a valle la più fresca e cristallina delle acque sorgive.
Pietre che sgorgano incandescenti dalle fauci del dio vulcano, per trasformarsi nella più fertile e generosa delle terre.
Pietre sagomate in piccolissime tessere dai mille colori lucenti e dorati, che ci raccontano costumi e storie di vita di 2000 anni fa.

Vorremmo vedere altre pietre ma abbiamo un appuntamento col tempo.
Il bello di un luogo è che non è mai quello che appare, ma per vederne l’anima devi prima uscire dal labirinto e cercare le infinite pietre della sua storia, ma ci sarà sempre un appuntamento con il tempo, inesorabile come una lama, che scenderà improvviso a tagliare il filo di Arianna.

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