La scuola che ho fatto
Spesso mi capita di parlare con due ragazzi che hanno fatto le scuole alte. Un ingegnere e un architetto. Resto affascinato dalla padronanza e competenza con cui trattano le materie proprie del lavoro che svolgono. Ma anche dalla padronanza che dimostrano rispetto i fatti della vita. Merito soprattutto della scuola che hanno potuto frequentare e in piccola parte, credo, anche dal contesto in cui sono vissuti. Beati loro che hanno potuto studiare, avendo liberamente scelto, confortati dai genitori, la scuola da frequentare. Nel loro caso il liceo. Ascoltandoli, ricordo il mio rapporto con la scuola.
Figlio di contadini di collina, ho iniziato dalle aste. La mia lingua di partenza è stata il dialetto. Essere figlio di contadini e non conoscere l’italiano mi ha subito posto in una condizione di inferiorità percepita e sofferta. Alle elementari purtuttavia me la sono cavata bene. Un profitto da fascia medio alta, subito dopo i primi. A quei tempi, alla fine degli anni cinquanta, dopo le elementari, esistevano due indirizzi: la scuola media e l’avviamento professionale. La media, per mezzo dell’insegnamento del latino, era il viatico per la continuazione degli studi verso i livelli più elevati, mentre l’avviamento professionale ti indirizzava verso il mondo del lavoro industriale o commerciale. La scelta era non libera e consapevole da parte dell’alunno e della famiglia. Era decisa dalla scuola. Nella maggioranza dei casi si trattava di una scelta classista. E io, figlio di contadini, nonostante un buon profitto, naturalmente fui indirizzato verso l’avviamento professionale. In quel preciso momento, con quella modalità, fu deciso il mio destino. In una classe di tutti maschi, essendo allora l’insegnamento diversificato fra maschi e femmine, conclusi il ciclo dei tre anni ancora con un buon profitto. Ai primi posti, appena sotto ai primi. Ero figlio e nipote di persone semi analfabete, che però per mezzo mio, probabilmente ambivano riscattarsi. Fu così che il nonno, il reggitore della famiglia, e il babbo decisero che dovevo continuare gli studi. Andare a scuola come si diceva allora. Ricordo che un giorno di luglio, il nonno noleggiò un’auto, con lui i miei genitori ed io, e tutti assieme andammo a Faenza a cercare una scuola che in realtà nessuno conosceva. Cercavano una scuola che avesse potuto darmi un futuro migliore rispetto loro. Ma non avevano idea di quale potesse essere e perfino dove fosse collocata. Fu così che passato il cavalcavia chiesero dove si trovava una scuola. Una persona gentile ci indirizzo alla scuola di ragioneria. Bussammo, ci dissero che era tardi, che le iscrizioni erano già chiuse. Ci indirizzarono in via Nuova, all’Ipsia, l’Istituto Professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato. Dopo tre anni di studio e lavoro conclusi con elevato profitto, al secondo posto nella scala di merito, diventai l’operaio numero di matricola 18 della Iemca, in via Emilia Ponente 6.