L’avviamento al lavoro
Pensando alla scuola di oggi giorno, non c’è poi tanto da lamentarsi di quelle che ho frequentato io. La scuola di avviamento professionale, tre anni dopo le elementari, era, fino al 1965 , quella scuola che permetteva a chi aveva conseguito la licenza elementare di continuare gli studi, ottenendo una formazione verso il mondo del lavoro o per la successiva frequentazione delle scuole tecniche o professionali. Gli insegnamenti, e quindi anche le classi, erano diversificati fra maschi e femmine, secondo la tradizionale suddivisione delle mansioni nella società tipica della prima metà del secolo scorso.
L’insegnamento era severo. Venivano richiesti assiduità e buon comportamento. A posteriori penso che gli insegnanti fossero bravi. Non regalavano nulla, il voto andava conquistato con la dedizione e lo studio. Spiegavano la lezione che poi a casa occorreva studiare perché il giorno dopo qualcuno sarebbe stato interrogato. Per tutti poi compiti in classe a ripetizione. Rammento tanto italiano: temi, poesie da imparare a memoria e da tradurre, riassunti e grammatica, molta grammatica. Parecchia aritmetica e matematica; la lingua francese, che mi è rimasta a tal punto da riuscire a farmi comprendere ancora oggi. Poi geografia e scienze naturali, ma anche musica e canto.
Forse però molti non sanno di alcune materie che ci venivano insegnate e di cui non sento più parlare. Come ad esempio la computisteria. Si trattava dell’applicazione del calcolo aritmetico alla contabilità a aziendale e finanziaria. Naturalmente tutto veniva fatto a mano e a mente, in maxi quaderni quadrettati. Fra le cose che ricordo, la tenuta della partita doppia, con le colonne del dare e dell’avere e gli strumenti finanziari fra cui le cambiali.
Il fatto che studiassi le cambiali non piacque a mio nonno. Mi spiegò con cura e molta insistenza che quelle striscie di carta equivalevano a debiti. Che in quella casa non se n’erano mai fatti e che quindi anch’io mi sarei dovuto comportare di conseguenza. Per la mia famiglia avere debiti equivaleva ad un disonore inaccettabile. Un insegnamento a cui mi sono sempre attenuto, con l’unica eccezione di quando acquistai la cinquecento. Lavoravo da un anno, quindi avrei dovuto pagarmela. Acconsentirono che firmassi quattro cambiali, penso all’unico scopo di sensibilizzarmi al controllo e all’uso oculato delle risorse di cui potevo disporre.
Tornando alle materie di insegnamento di quel tempo, come non parlare della stenografia, un alfabeto di segni che consentiva di scrivere alla velocità di come si parlava. Ad ogni segno o simbolo poteva corrispondere una lettera, ma anche un’abbreviazione, una parola, un suono o addirittura una piccola frase. Davvero bello.
Infine la calligrafia. Era l’arte del saper scrivere a mano, della bella scrittura. Quella materia che non hanno mai studiato i medici. Le lettere venivano tracciate in modo ornamentale, particolarmente le maiuscole. Modulare la pressione sul pennino consentiva di tracciare linee con diversi spessori tali da conferire al ghirigoro aspetti diversi: a volte aggraziati, altre più barocche. La materia sviluppava la manualità e credo anche il senso del garbo e della bellezza.
Oggi parlare di tutto ciò, se messo in relazione con i tempi, appare sicuramente anacronistico. Pur tuttavia se molti ragazzi sapessero far meglio di conto a memoria, sapessero tenere una piccola contabilità, sapessero scrivere a mano in forma leggibile, sapessero appuntarsi decentemente un discorso, credo che la modernità non se ne avrebbe a male.