Fiat, prevalgono i dubbi
Ciò che più sorprende alla lettura dei commenti di queste prime ore post acquisizione di Chrysler da parte di Fiat, è la algida distanza dei più – pur blasonati esperti e conoscitori del mercato automobilistico globale – nel valutare gli eventi e soprattutto nell’ipotizzarne le conseguenze sulla economia e la società italiane.
Assolutamente significativa la prima dichiarazione del presidente Squinzi: di certo una buona notizia per Fiat e per gli USA, da vedere se lo sarà anche per l’Italia (pressoché testuale). Il “bocconiano” professor Giuseppe Berta, noto e stimato esperto, storico della Fiat, ha dichiarato ad un quotidiano: “Senza quest’accordo potevamo tirare una riga sopra alla produzione dell’auto in Italia”; ed ha aggiunto: “Così c’è una speranza…”. Speranza, non più di tanto. Fra i commenti che abbiamo potuto leggere solo un altro risulta più incisivo; è quello del senatore Massimo Mucchetti – altrettanto competente al di là della sua carica politica – che scrive senza mezzi termini: “Marchionne scommette…..Se qualcosa va storto, Fiat-Chrysler faticherebbe a reggere. Ci vorrebbe un aumento di capitale. Ma è esattamente quello che Marchionne nega”.
Dunque, al di là del botto in borsa che pure è una buona notizia, “speranza”, “rischio”. Di certo un dato di fatto viene a galla in questo frangente, e nessuno più lo nega: la Fiat italiana, quella che abbiamo conosciuto per decenni, in quanto produttore di auto ha perduto da tempo gran parte della propria rilevanza. Coloro che, più di noi, conoscono dall’interno la questione ci perdoneranno l’approssimazione, ma è bene ricordare che quella Fiat giunse a produrre in un anno in Italia fino a due milioni di auto, mentre nel 2013 ne ha prodotte circa 350.000. Tanto profondi, effettivamente rivoluzionari sono stati i processi di trasformazione dei mercati, dei sistemi produttivi, degli assetti industriali e societari; e quindi del lavoro, in tutte le sue espressioni, dalla progettazione al montaggio.
Non solo in Italia. Ma forse solo in Italia tutto ciò è avvenuto nella sostanziale estraneità del potere politico, con poche differenze fra le diverse stagioni che la politica ha attraversato. Non si intende evocare con ciò una azione della politica subalterna o servile nei confronti dei grandi potentati economici; si intende affermare che un paese moderno, che voglia restare nel novero delle economie importanti, non può privarsi di una lungimirante politica industriale. Vale per la filiera dell’automotive – tanto più in un paese che abbia la storia industriale dell’Italia – vale più in generale.
Le vicende della Fiat nel corso degli ultimi due decenni sono tuttavia particolarmente significative. Chi ha profuso a piene mani l’ideologia del post-industriale (???) come sinonimo di modernità ha derubricato a semplice questione sindacale il duro confronto sulle ricorrenti ristrutturazioni del gruppo, osservando da lontano e riservandosi, ovviamente, di bollare come vetero-corporativismo ogni ricerca di visione strategica dietro all’ordinario galleggiamento sulla quotidianità di mercati sempre più turbinosi ed incerti.
Forse è utile rileggere alla luce di queste considerazioni anche le rotture endo-sindacali di cui tanto si è discusso come fossero duelli rusticani fra massimalisti impenitenti e riformisti consapevoli.
La cronaca propone a tutti di nuovo la questione Fiat. La propone a Marchionne ed Elkann, ovviamente. Ai sindacati. La propone alla politica, soprattutto alla sinistra politica. Ci auguriamo che la prudenza di queste ore non si riveli essere nuovamente un opportunistico chiamarsi fuori di molti.