“Praefectus urbis”
“La memoria è un progetto di futuro”, dice Moni Ovadia.
Sul piano dell’etica è una virtù; dal punto di vista civile è un dovere.
Anche vicende di cronaca come la recente scomparsa del boia Priebke dovrebbero essere occasione per rinnovare in ciascuno questa consapevolezza. Recandosi alle Fosse Ardeatine per rendere una volta di più omaggio a quei martiri; o sostando qualche minuto in raccoglimento davanti al museo di via Tasso.
Ci sarebbe piaciuto vedere, in questi giorni, qualche esponente importante delle nostre istituzioni compiere questi gesti. Non una provocazione; non sarebbero state necessarie dichiarazioni altisonanti. Sarebbe bastato il gesto; un esercizio di memoria.
Sarebbe stato ancor più significativo se, proprio mentre le cronache ci raccontavano di una discussione, francamente sconcertante, sul trattamento da riservare alla salma del defunto, si fosse deciso di donare alle biblioteche delle scuole romane il libro di Giulia Spizzichino o quello di Alessandro Portelli sulla vicenda delle Fosse Ardeatine, la più efferata manifestazione della malvagità di Priebke.
Invece abbiamo dovuto assistere ad una rappresentazione surreale, immemore, a cui ha largamente contribuito -consapevolmente o no è solo affar suo- un alto esponente delle istituzioni della repubblica: il prefetto di Roma, il dott. Giovanni Pecoraro.
Il suo stupefacente comportamento ci ha fatto ricordare che nella Roma imperiale il “praefectus urbis”, autorità seconda solo all’imperatore, esercitava anche autorità di carattere morale: ad esempio poteva punire le giovani generazioni se non manifestavano adeguata pietas nei confronti dei padri. E quando -dopo qualche secolo- la figura del praefectus fu istituita anche a Costantinopoli, seconda capitale dell’impero, gli furono attribuiti anche poteri di controllo durante la elezione dei papi.
In occasione della morte di Priebke il dott. Pecoraro deve essersi raffigurato se stesso nei fasti dell’impero e, in quanto somma autorità anche morale, perfino religiosa, ha sentenziato che a Priebke potevano essere rese onoranze funebri secondo il rito religioso. “Non potevo negare una benedizione cristiana. Sono sereno” ha dichiarato alla stampa, sentendosi evidentemente molto compreso della propria funzione, anche in ambito spirituale.
Paradossale che lo stesso Vicariato di Roma avesse molto saggiamente dichiarato che “… considerate tutte le circostanze….le esequie religiose…dovessero avvenire nella casa che ospitava la salma del defunto”. Né in alcuna chiesa, né in alcuna piazza di Roma e del suo territorio, dunque.
Per parte nostra suggeriamo al prefetto Pecoraro di riflettere bene sulla intollerabile superficialità (o presunzione, o altro) delle sue prese di posizione, di prendere coscienza che i romani non riconoscono la figura del praefectus urbis, né la sua immaginaria autorità morale. Più in esplicito: decida di trarre le più naturali conseguenze da quanto avvenuto, si dimetta!
Dopo alcuni giorni di indignazione abbiamo ieri profondamente condiviso i sentimenti che il Presidente Napolitano ha rappresentato alla comunità ebraica di Roma con la sua visita al ghetto e al Tempio Maggiore, in occasione del 16 ottobre, settantesimo anniversario del rastrellamento degli ebrei romani ad opera degli aguzzini di Kappler.
La concomitanza temporale ci è parsa quasi un segno riparatore del destino.
Giuseppe Casadio Roma